La questione dei rifiuti di Napoli c’è chi la chiama tragedia. Per altro la dimensione tragica, chissà perché - è presente frequentemente nella vita di Napoli e dei napoletani, quando non scade a tragicommedia.
A ben guardare, essa – la questione dei rifiuti - è paradigmatica della questione napoletana e più in generale delle questione meridionale. Ve ne sono infatti tutti gli ingredienti: in primo luogo il connubio perverso di interessi tra ambienti del nord (in questo caso gli industriali che hanno trovato un espediente per smaltire a buon mercato i rifiuti speciali – speciali perché particolarmente pericolosi) e ristretti ambienti napoletani e campani (in questo caso i clan camorristici); l’insipienza quando non la connivenza e la complicità del ceto politico e non solo di questo, ma di buona parte della classe dirigente napoletana; l’astuzia del capitalismo settentrionale (nel caso di specie la società Impregillo) che profitta della debolezza del sistema locale; la latitanza dal problema – tranne qualche rara ed inascoltata eccezione – della intellettualità partenopea; l’ignavia della borghesia cittadina; la rassegnata abulia del resto della popolazione.
Certo: se tanti sono i fattori in gioco, svaniscono le singole responsabilità. E questo bisogna assolutamente evitarlo. Epperò bisogna evitare anche l’ opposto: semplificare le cose e ridursi a considerare uno solo degli agenti in campo, quello più evidente e che meglio si presta al ruolo di capro espiatorio. Se ciò accadesse – e purtroppo non è improbabile che accada - sotto un’apparente e superficiale risanamento della situazione, nel fondo tutto resterebbe inalterato. E sarebbe un disastro, perché, non cogliendosi la complessità dei fattori in gioco ed il loro intreccio, sarebbe impossibile sradicare le cause dell’accaduto e quindi gli effetti si riprodurrebbero.
Ed allora bisogna distinguere, secernere, scavare.
E’ quanto auspicabilmente dovrà fare il Cantiere su Napoli, non semplicemente a proposito della questione rifiuti, ma della questione napoletana.
Ci sono molti aspetti che dovremo affrontare. E molti interrogativi dovremo porci.
Enrica Morlicchio e Sergio D’Angelo nel loro articolo sul n. 5 del 2007 di Carta mensile – quello dedicato appunto a Napoli per la promozione del Cantiere – accennano al tema “della ricerca di un ceto politico amministrativo ed imprenditoriale capace di porsi alla guida di un progetto di cambiamento. Un questione che in Campania e a Napoli resta in buona parte irrisolta”.
A mio avviso il problema è proprio questo, ed è del tutto irrisolto. Quello della classe dirigente. E’ da esso – io credo - che dobbiamo partire per la nostra analisi.
Un ceto politico “chiuso come un bunker” impermeabile a qualsiasi spinta proveniente dall’ esterno del suo “sistema”. Una intellettualità, tranne rare eccezioni, o cinicamente distaccata e passiva nei confronti del potere politico, oppure succube e connivente con esso, comunque lontana dall’altra città, dalla “città di sotto”, quella del popolo basso - come si diceva un tempo - o del popolino – come diceva Sereni - o del sottoproletariato - come si dice oggi. Per non dire del ceto imprenditoriale, nelle sue varie articolazioni e sfaccettature, e delle diverse categorie professionali: cioè della borghesia napoletana. E’ in essa che ha la sua tana il blocco sociale della conservazione perpetua, che replica ad ogni occasione quella che Croce ha chiamato le “eterna rapina”, per la quale gli investimenti pubblici si risolvono puntualmente nell’arricchimento di pochi senza produrre i risultati voluti. E’ qui, nel blocco sociale responsabile del mantenimento dello status quo, che si annida la “questione morale”, radice dei mali di Napoli. Essa viene da molto lontano. Già nel settecento ne parlavano Filangieri e Pagano ed è giunta ai giorni nostri. Nel 1990 Pasquale Saraceno la descriveva così: “la convivenza di modernizzazione apparente e di residui socioculturali del passato è il terreno comune di coltura dell’assistenzialismo della corruzione e della piccola e grande criminalità”. Nel 2006 Pietro Greco ha scritto pagine chiarissime su questo tema in La Città della Scienza.
La questione morale si intreccia strettamente alla questione economica, anzi è alla sua base. La inaudita sproporzione tra le fonti distribuite di reddito e le dimensioni demografiche della città caratterizza la situazione di Napoli da circa quattro secoli. Gran parte della popolazione che via via si è addensata nella ed intorno alla “capitale del Mezzogiorno” è stata (ed è) costretta a vivere di espedienti, sicché la illegalità, la piccola illegalità, è stata la struttura portante dell’economia di sopravvivenza. E quando ai tempi delle “mani sulla città” alla piccola illegalità degli strati subalterni si è aggiunta, eretta a sistema, la grande illegalità della borghesia la situazione è esplosa.
Gli interrogativi da porsi sono dunque molti.
Com’è che la classe dirigente napoletana è riuscita sinora a perpetuare se stessa, neutralizzando i tentativi di rinnovamento, che pure ci sono stati? Qual è il meccanismo di questa perpetuazione secolare ? Perché il collante culturale da cui trae linfa l’intreccio tra politica, affari, e criminalità che strangola la città non è mai stato scalfito?
Si assume che sul medesimo territorio coesistano - e forse senza convivere - due diverse città. Una città doppia, dunque. Ma perché non si riesce a mettere in comunicazione reale le due città o le “diverse anime” della città”? Da cosa trae origine questa doppiezza e quando è sorta? Non è che a essere “doppi” siamo noi napoletani, cioè che sia doppia la nostra cultura, la nostra mentalità che permette alle “ persone per bene” di acconciarsi a convivere con il malcostume, la sopraffazione, il clientelismo, come se fosse normale, senza ribellarsi nei confronti delle istituzioni, adattandosi a coniugare arte, scienza , filosofia, bellezza e “munnezza”? Ed infine: noi che intendiamo dibattere ed affrontare questi temi siamo parte di questa classe dirigente o ci chiamiamo fuori? Siamo del tutto immuni da questa cultura della doppiezza?
Insisto su questo punto, perché sono d’accordo con quanto ha scritto Attilio Wanderlingh, sul numero di Carta che ho già ricordato. La questione napoletana va affrontata sul piano culturale e “non c’è destino per questa città, se la cultura non parte dalla loro condizione, (quella del “popolo borderline” ndr) non dalla nostra”. Occorrerebbe dunque mettere mano alla rigenerazione della struttura sociale della città, luogo per luogo, mediante una intelligente "gestione del quartiere"
Il ragionamento ritorna così al suo punto di partenza, al tema posto da Enrica Mordicchio e Sergio D’Angelo: quello del soggetto “capace di porsi alla guida di un progetto di cambiamento”. C’è? E se no, si può promuoverlo e come?
Nino Lisi
domenica 13 gennaio 2008
Questione rifiuti e Questione napoletana
Etichette:
cittadinanza sociale,
spazio pubblico
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