lunedì 14 luglio 2008

Padre Valletti: "Il muro di gomma"

Il Mattino, 14 luglio 2008

Il muro di gomma
Fabrizio Valletti

Ancora una volta lacrime, in uno scenario tragico che appare impossibile da cambiare. Ancora una vittima sul lavoro, la quinta in dodici giorni, nel tempo che per molti è del riposo, della vacanza. E’ vero che i motivi per lottare ci sono sempre tutti, ma stavolta sembra che l’accanimento della sofferenza li voglia estirpare uno ad uno. C’è da restare ammutoliti di fronte alla morte di Paolo Di Biase avvenuta a Casavatore un giorno dopo quella di Raffaele, il diciassettenne di Scampia: quale beffa del destino c’è mai dietro una fine come quella del giovane di 33 anni, morto per montare le luminarie di una festa patronale che doveva portare divertimento e allegria ?
Anche nell’altra tragedia, quella del ragazzo di Scampia ucciso dal lavoro, s’incrociano due drammatiche tensioni. E per chi vive tra le vele sono tensioni ineludibili.
Il lavoro scelto da Raffaele, come necessità e come cultura., il carcere dove è recluso suo padre, come struttura voluta dal diritto. Ambedue presenza e assenza, ambedue necessità e urgenza di cambiamento. Perché parlare di cultura del lavoro di fronte alla morte di Raffaele? La sua giovane vita è stata segnata da un mercato del lavoro chiuso ai diritti dei giovani. Non bastano le voci dei Vescovi, dei cittadini responsabili, di una lodevole tradizione di produttività. Il muro di gomma fa sì che non si sviluppi una cultura del lavoro che sia prospettiva per i giovani, iniziativa per l’impresa, garanzia di economia e soprattutto educazione a rispettare le regole. Perché il lavoro esige il rispetto di tante regole.
Ancora una volta si è infranto il tentativo di rendere positiva la cultura del lavoro e si piange un giovane che con coraggio ha evitato di far proprie le scelte di suo padre e ha tentato il percorso della normalità con sacrificio e dedizione. Perché parlare anche della cultura del carcere? Perché nella vita di Raffaele ha rappresentato un ulteriore motivo di dolore e di sofferenza. Per me che da anni cerco di vedere sul volto dei reclusi i segni di una volontà di un nuovo cammino, è sconcertante che la società civile sia assente da un campo in ogni stato di diritto spia di civiltà. Ciò non significa dimenticare le vittime della criminalità e delle azioni illegali, né è sminuire la certezza della pena o sottovalutare il tema sicurezza. Quando cito la cultura del carcere voglio dire che la pena, e le strutture che ne garantiscono l’esecuzione, sono relative nel tempo e nello spazio e che , secondo il messaggio evangelico, è un dovere garantire a ciascuno il raggiungimento di una riappropriazione della sua coscienza. Ma è soprattutto doveroso non dimenticare le famiglie di chi è detenuto e che sono per l’appunto immerse in quella cultura del carcere che le vede discriminate e sottoposte a prove che riducono, specie per i più giovani, una serena convivenza con la società di tutti. Anche per questo la morte di Raffaele provoca una dolorosa reazione di ingiusta ulteriore sofferenza, per la famiglia ed un po’ di fallimento di tutti noi. Ancora una volta il pianto può essere motivo di condivisione con la famiglia e anche di speranza che una vita spezzata non è finita ma prosegue in quella luce che l’Assoluto ci dona.

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