sabato 21 novembre 2009

Chance si istituzionalizza…(?) Tra restaurazione e invenzione

di Salvatore Pirozzi

Il progetto Chance regionale prosegue l’esperienza del progetto Chance, allargandone l’area di intervento e le acquisizioni metodologiche che ne hanno determinato il successo in 12 scuole della provincia napoletana. Espandersi non significa clonazione. Il cuore – in tutti i sensi - metodologico di Chance, che, nessuno lo dice mai, già è stato trapiantato in mille altri corpi, senza che questi diventassero identici a Chance né tra di loro, ha – nel suo cuore – un paradosso: la competenza più straordinaria delle culture Chance è quella di attivare risorse locali insieme agli attori locali. Detto schematicamente, mutuando da altri ambiti la metafora, è una competenza di capacity building. Una expertise “prossimale”, un enzima che facilita e accompagna le auto poiesi. Il paradosso, dunque, sta nel tentativo di generalizzare le metodologie per le agency locali. L’illusione di poter generalizzare delle pratiche attraverso la distribuzione di un repertorio di strumenti, di metodologie esternalizzate da corpi, luoghi, emozioni, saperi, interessi e motivazioni è destinato a tradire il cuore metodologico del progetto. In questa chiave va letta l’aspirazione del nuovo chance regionale a diffondersi attraverso processi di attivazione delle singole scuole, insistendo, tra l’altro, sulla loro capacità di base a iniziare il percorso individuando le proprie risorse interne, abitanti e non coloni dei propri stessi ambienti. E, a partire da ciò, costruire setting riflessivi, a cerchi concentrici sempre più ampi, in cui la discussione – un processo in cui ognuno deve imparare a “dis”, togliersi, la propria cute. Chance, insomma, ha poco da spartire con la vulgata delle buone pratiche, ma è una pratica sufficientemente buona per altre pratiche sufficientemente buone.
Superfluo qui, ma sarà indispensabile poi, richiamare tutti i riferimenti teorici e tutte le tecnicalità che possono accompagnare il processo di “risalita in generalità” del progetto, dei suoi attori vecchi e, se la cosa funziona, soprattutto nuovi che emergeranno nei processi comunicativi e di “pubblicizzazione” – di rendere cioè materia riflessiva per tutta la “città” e non solo per gli addetti ai lavori – dei problemi e dei processi. Per dirla con Dewey – ma che fine ha fatto nella pedagogia e nelle politiche questo maestro? – chance si fonda sul metodo postulatorio, espone i principi delle proprie analisi e delle proprie azioni come postulati e non come verità; si fonda su doxai e non su episteme.
Chance regionale non è solo eredità o metempsicosi di Chance (e dà fastidio la riduzione agiografica del progetto quando non riflette sulle sue stesse genealogie e sulle sue fittissime parentele, attraverso rappresentazioni eccessive dell’originalità di Chance).
Si inquadra, a sua volta, nella cornice europea più ampia, e più antica – risale al libro bianco Cresson del 1995 – della scuola di seconda occasione (SSO). Interpreta, se vogliamo, un mandato:
L’idea è semplice: offrire ai giovani esclusi dal sistema d’istruzione, o che stanno per esserlo, le migliori formazioni e il migliore inquadramento per dar loro maggiore fiducia in sé stessi… Continua...

Si tratta inoltre di rifare della scuola - mentre, in tali quartieri sensibili, crollano i contesti sociali e familiari - un luogo comunitario di animazione, mantenendovi, al di là delle ore d’insegnamento la presenza, di educatori.
Occorre fare due premesse.
La prima concerne il fatto che la chance, o la seconda occasione, riguarda anche, e soprattutto, l’istituzione scuola e la politica in generale. Le ragioni del fallimento non sono esternalizzate nella “difettività” dei ragazzi, ma il fallimento è assunto dall’istituzione stessa, per l’inadeguatezza dell’offerta formativa verso i drop-out, e, più in generale, verso l’area del disagio e del fallimento, molto più estesa dell’area comunque significativa degli “esclusi”.
Anche l’istituzione ha una chance, una seconda occasione per rifondarsi nei suoi assetti, pedagogici, didattici, organizzativi. È una chance che riguarda l’istituzione che vuole apprendere e non attribuisce il fallimento o l’inadeguatezza solo a disfunzioni o a disturbi marginali del contesto, ma si interroga sulla crisi epocale delle forme e degli statuti dell’apprendimento come si sono incarnati nella forma che conosciamo, forma storica e non eterna, che risale alla modernità e alla civiltà della stampa o, al massimo, a 150 anni fa.
La seconda riguarda la definizione stessa di “seconda” e di “occasione” (o chance).
Che significa “seconda”? Non è certo la replica, un’altra volta, magari abbellita – la cornice dell’appetibilità – e più spesso semplicemente banalizzata della stessa offerta, condita di una retorica sulla relazione che non riesce a essere declinata oltre l’accoglienza e dentro le relazioni situate degli apprendimenti. Seconda significa “differente”. Ha quindi i connotati dell’invenzione più che quelli del rinnovamento. Ma la stessa “occasione” (la chance) ha un valore diverso da quello che la sintesi della nostra cultura umanista ci ha consegnato: l’occasione non è qualcosa che un soggetto “virtuoso” e ricco di volontà e motivazione deve afferrare. Un simile approccio insiste sulla volontà come una capacità universale degli individui. Come la letteratura “democratica” sull’attivazione sottolinea, questa impostazione ha la paradossale conseguenza di esporre la fragilità degli individui all’ennesimo fallimento della loro volontà; rinforza, attraverso la perversione dell’effetto blaming, lo stigma dell’incapacità attraverso la coazione a ripetere del proprio individuale fallimento, fallimento di cui solo l’individuo difettoso è responsabile. L’individuo in tal senso difettoso non è, nel panorama antropologico e psicologico della nostra civiltà, nel nostro stesso panorama interiore, solo il drop-out. La fatica di essere se stessi, le passioni tristi sono un dato diffuso e forse non dovremmo guardarlo più, questo quadro, come una patologia, ma dovremmo cominciare se non è ormai una delle forme più diffuse della condizione umana. Rispetto alle quali le vecchie pratiche delle “prediche” del dover essere rivelano la loro impotenza e, questa volta sì, la patologica inefficacia delle terapie pedagogiche.
La riflessione di Chance - e di mille altre esperienze formative delle diverse occasioni - sottolinea che non si può lasciare da solo un individuo privato di tutte le risorse sociali di cui, fino a 30 anni fa, egli disponeva (e non penso solo al welfare dei diritti, ma a una condizione in cui il “capitale sociale” era più ricco). Afferrare la chance è un percorso faticoso, lungo, tutto l’arco della vita, possibile solo attraverso un sistema di accompagnamento e sostegno per un progetto di vita che veda al centro la costruzione di una capacità di base di decidere, all’interno della faticosa esplorazione di desideri e vincoli, qual è la propria misura e il proprio ben-essere.
Nella cornice della SSO è l’orientamento, inteso nella sua etimologia di “orior”, come nascere, e non nella miseria della cultura dell’adattamento a ciò che passa il convento, il cuore della relazione.
Funzione delicata, che corre il rischio di costruire, anche all’interno delle cornice del dono e della sua violenza, dipendenze ancor più radicali; ma il rischio dell’acqua sporca non può significare il sacrificio del bambino. L’alternativa alla subalternità e alla dipendenza non è l’ideologia dell’autonomia – il mito borghese – ma quella della, come declina Martha Nussbaum, fine interdipendenza; o, come descrive Sennet, la coniugazione di una educazione che tenga insieme inabilità anche irrecuperabili – disuguaglianze irriducibili - con la cultura del rispetto dell’altro come sovrano di se stesso. Una SSO che navighi tra riconoscimento delle “differenze” e riconoscimento dell’assunzione sociale delle “disuguaglianze”.
Una SSO, quindi, mette al centro gli individui e l’interezza della loro persona; per questo la SSO non può pensare solo alla dimensione istruttiva; ma si caratterizza per un’offerta educativa a 360°, tiene insieme il “care” e la “cura”. Una SSO educa l’emisfero destro e quello sinistro, ripara e favorisce le literacy ma anche le competenze emozionali e sociali.

È difficile rintracciare nella storia delle esperienze e delle sperimentazioni delle SSO costanti talmente forti e unanimi da poter costruire, su di esse, un modello forte.
Alla base dell’impossibilità di un modello forte - della stessa fallacia delle sue illusioni ideologiche - c’è una ragione storica importante, che forse non viene sottolineata.
La nostra modernità è definita, tra le mille sue definizioni, la società dell’incertezza.
Secondo questa definizione, mentre il “rischio” è riducibile a un calcolo probabilistico, a qualcosa quindi di prevedibile e calcolabile, l’”incertezza” appartiene a un orizzonte ineliminabile dell’agire umano, soprattutto quando si parla delle interazioni umane. L’incertezza è, in altri termini, l’occorrenza continua degli eventi.
Una SSO è centrata sulle interazioni o sulle transazioni, essendone la relazione l’essenza, ed essendo la relazione basata sulla concezione di un soggetto capace di agentività. Il mondo che emerge, attraverso le transazioni umane, è un mondo assolutamente non pre-dicibile e quindi non pre-scrivibile. È, soprattutto, un mondo locale, dove il locale non è una cellula topografica, ma il territorio mobile delle interazioni, irriducibile alla stessa integrazione, se a questa parola si vuole dare il significato delle differenze riportate a interezza.
La SSO è dunque un’istituzione capace di governare, non di eliminare, l’incertezza; è per questo che l’assetto strategico della SSO è quello organizzativo. Non solo perché i setting sono una struttura di contenimento; ma perché sono gli strumenti della cosiddetta governance, come competenza necessaria non all’esecuzione di un comando, all’applicazione di uno schema, ma a favorire l’emergere delle attorialità e a costruirne continui contenimenti dei processi. È per questo che l’organizzazione stessa, primaria, della scuola deve cambiare. Un’organizzazione che fissi le regole dei game, e, al suo interno, riconosca però le variabili del playing. Dietro la concezione, invece, delle buone pratiche come repertorio, della loro hybris come orgoglio smisurato di essere più forte d’ogni setting, si nasconde la mistificazione burocratica: non cambiare il game, non riconoscere nella SSO un diverso tavolo di gioco, riduce l’innovazione a restaurazione.
L’organizzazione della SSO non è un aspetto tecnico, un “contesto”, ma una dimensione cognitiva, costruita intorno alla capacità negativa e alle connesse competenze. Quello che Chance, e in diversa misura tutte le sperimentazioni analoghe, ha saputo fare è l’attivazione delle risorse locali, a partire da quelle individuali, di ragazzi e operatori e più in generale del cosiddetto territorio.

Se pure istituzioni dell’incertezza, e in questo radicalmente diverse dall’istituzione fordista della scuola tradizionale, e quindi localmente connotate, una recente ricerca – Le scuole di seconda occasione. Riprendere a educare, Erikson, 2009 -, costruita sull’osservazione delle sperimentazioni più significative in Italia, ma con riferimenti europei, tra le quali il progetto Chance è sicuramente l’esperienza maggiormente paradigmatica, ha rintracciato alcune costanti che consentono di definire tratti pertinenti, se non modello forte, di una SSO.
In sintesi:
Le SSO si rivolgono a ragazze/i che hanno un danno da “incompetenza appresa”.
L’incompetenza appresa – e il conseguente danno di motivazione – determinano un’interiorizzazione dello stigma dell’incapacità. La ferita della disistima produce il rifiuto della scuola tout-court come ambiente patogeno che espone di nuovo alla frustrazione e alla conferma dello stigma. Lo stigma, del resto, come ci insegna Goffman, diventa, come vediamo nei bambini “cattivi”, l’unica risorse di identificazione e di rivendicazione; trasforma la disuguaglianza in corruzione, lo stigma diventa merce di scambio.
Per agganciare questi ragazze/i occorre che persone per loro inedite, al di fuori dei setting scolastici, in genere educatori, spesso in un vero e proprio outreach, li contattino stabilendo con loro relazioni positive. Per essere positiva, una relazione deve basarsi non su un’offerta, ma sul reciproco riconoscimento del reciproco valore, una reciproca de-stigmatizzazione. La relazione prescinde dalla cultura del target, della riduzione degli individui a una loro misura preordinata di congruità con l’offerta. Solo in questo quadro l’adulto è riconosciuto significativo. Solo in questo quadro la SSO diventa la scuola della parola e della scrittura autentiche.
La SSO è consapevole che una scuola centrata sul cliente deve comunque affrontare i problemi degli standard e della valutazione secondo i loro parametri. Ma questo è un terreno problematico, che anche gli esperti dello standard devo assumere in quanto tale, imparando a pensare su come sia possibile declinare universalità con tempi e luoghi locali e individuali. Altrimenti gli stessi slogan della scuola per tutti e per ciascuno, la stessa retorica del long life learning trasformeranno l’apprendimento nella finzione di un giro d’italia in cui tappe, lunghezze e tempi sono già fissati e le classifiche ritrasformeranno i differenti e i disuguali in “ultimi della classe”.
La SSO inizia fuori dalla stessa scuola, in spazi e tempi costruiti sulla relazione in sé.
Senza questo preliminare, ci dice la ricerca, la SSO non comincia.
Aggancio, contatto superano così la registrazione puramente anagrafica dell’evasione e trasformano i numeri in biografie, in patrimonio di conoscenza delle specificità individuali dei destinatari. Gli ex-clusi, gli in-adatti, gli an-alfabeti, gli in-gnoranti ridiventano persone e individui, non una categoria difettosa. Spesso frettolosamente chiamiamo inadatti ragazzi ricchi di saperi.
Come scrive Annamaria Ajello in un saggio su Scuola & città (2006, n°2):
“…se guardiamo agli allievi che oggi entrano a scuola, a qualsiasi livello, essi sono in realtà molto diversi, perché pur potendo avvertire la stessa estraneità rispetto ai codici che la scuola presenta loro, hanno un complesso di esperienze anche di apprendimento molto ricco, che può apparire caotico e disordinato rispetto alla sistematicità disciplinare, ma che in molti casi è largamente sconosciuto agli insegnanti con cui hanno a che fare.”
E proseguendo:
“Rispetto a tali soggetti, la scuola non può essere autoreferenziamente trasmissiva, non può avere compiti di “infarinatura”, perché per così dire sono già “infarinati”, anche se di una farina talora poco conosciuta dagli insegnanti; questi allievi hanno, piuttosto, il problema contrario rispetto a quelli delle generazioni precedenti, perché la loro necessità maggiore non è quella di “ricevere”, ma quella di rielaborare, di trovare un filo ordinatore, di individuare modalità di archiviazione, di sviluppare cioè modalità di elaborazione delle informazioni non spontaneamente acquisibili, ma che richiedono invece l’intervento di un adulto competente.
La SSO, da scuola per disgraziati, si propone come invenzione di una forma istituzionale più adatta alla nostra modernità. Esce da una cultura e da una prassi che ha mortificato, per esempio, le scuole professionali nelle scuole facili del territorio.
Ma aggancio e accoglienza non sono solo preliminari, evolvono in una fitta rete relazionale che attraversa tutto il processo educativo e si articola nelle forme varie dei differenti contesti pedagogici, didattici, educativi, fino a quelli delle relazioni specifiche nei processi di apprendimento/insegnamento nei loro contesti sociali extra-scolastici. Inaugura, su mandato, tra l’altro, UE, una politica culturale per riconoscimento e valorizzazione dei saperi informali e non formali.
Il tratto comune di ogni relazione, fino all’apprendimento, in ogni suo contesto, è quello che a Chance è chiamato l’assioma della significanza. Senza questa significanza, che solo i ragazze/i possono decidere che esiste, non c’è apprendimento. Per parafrasare Scuole aperte e per recuperare il suo insegnamento, la SSO nasce come una scuola aperta a tutti, aperta a tutto. Questo non significa che gli adulti, le istituzioni, i saperi formali si oscurino nell’incontro; significa anzi che la relazione nasce come negoziato, come, seguendo Dewey, transazione.
La SSO è dunque un incontro antropologico, non un’inclusione del fuori nel dentro. Come l’antropologia ci insegna, l’incontro non si fonda, ormai, sul presupposto di identità costitutive diverse; ma scopre come le stesse identità si costruiscono, non gli pre-esistono, nell’incontro. Sono una costruzione sociale.

Altra costante è la necessità di figure professionali diverse e la specificità delle competenze necessarie.
Il lavoro nell’incertezza è un lavoro complesso. Dalle esperienze osservate si ricava un’importante caratteristica delle competenze professionali. Nella dimensione del professionista riflessivo e delle comunità di pratiche, che sono i due espliciti e diffusi riferimenti teorici caratteristici della SSO, il pensiero e il piano non precedono l’azione, ma la accompagnano in una dimensione di riflessività continua nelle e sulle pratiche. Questo vuol dire che non è possibile un’esternalizzazione delle competenze in un repertorio indipendente dai soggetti; le competenze emergono nell’azione e esistono se sono costruite e condivise in situazione, sono interne all’agire situato. Senza narrazione e riflessione sulle pratiche non esiste neanche una loro comunità. Lo statuto professionale si indebolisce, rispetto ai suoi vecchi fondamenti disciplinari, parallelamente all’indebolimento stesso dei fondamenti delle discipline; ma si arricchisce dalle esperienze continue del tresspassing dei confini. Anche in questo caso, parlare di integrazione tra figure diverse, ognuna delle quali assunta nella sua specifica individualità, corre il rischio di consegnarci alla nostalgia fondamentalista dei saperi e delle professioni. Non si tratta di portare a integrazione le diversità, ma di governare i continui sconfinamenti e accavallamenti, nella logica dell’intelligenza collettiva e dell’istituzione tutta. Nella SSO i docenti non sono solo quelli delle graduatorie scolastiche.
Il lavoro di squadra, caratteristico delle pratiche di successo delle SSO, non è un lavoro collaborativo, ma cooperativo; non nasce dalla divisione del lavoro, ma dal governo e dalla promozione della sua socializzazione.
Ci troviamo di fronte a una disponibilità etica, organizzativa e professionale che è l’elemento veramente generalizzabile delle esperienze osservate: la generalizzazione delle esperienze, la loro modellizzazione sono possibili solo all’interno di questa comunanza di orizzonti. Sono esse stesse il frutto di pratiche negoziali e dei setting che le contengono e le rendono possibili.
Tutto ciò non significa consegnare all’ineffabilità la motivazione e l’agire professionale. Sono anzi importanti le tecnicalità che questo orizzonte, come orizzonte comune, rendono possibile.
Queste tecnicalità, dentro l’orizzonte di una SSO come scuola dell’attivazione, sono l’ossatura del progetto, il loro tratto comune, la garanzia delle sue condizioni preliminari di identità, di verifica e di valutazione. Queste tecnicalità di base, l’asse portante della metodologia, vanno descritte per le singole parti del progetto.
È il momento di farne un inventario che non sia una lista per la spesa.

Salvatore Pirozzi

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