martedì 22 gennaio 2008

La povertà a Napoli: la realtà, la retorica, i (carenti) rimedi

di Enrica Morlicchio e Enrico Pugliese
(da: Il seme sotto la neve, n.2, 2007)

Per inquadrare la questione della povertà a Napoli e vedere quali sono i soggetti (o meglio i tipi di famiglia) maggiormente a rischio di povertà possiamo basarci oltre che sulle ricerche di campo sui dati dell’indagine Istat sulla distribuzione regionale del reddito. Il divario tra le regioni del Nord e quelle del Sud riguardante gli indici di diffusione della povertà è veramente impressionante: nel 2006 in Sicilia e in Calabria essi sono pari rispettivamente al 28,9% e al 27,8% a fronte del 3,9% della Emilia-Romagna e del 4,7% della Lombardia. E la Campania si colloca su valori prossimi alle prime due regioni Inoltre in Campania negli anni scorsi l’incidenza della povertà non è mai scesa al di sotto del 20%; e, stando ai dati del 2002, nella sola Regione Campania risiede quasi lo stesso numero di persone povere presenti in tutte le regioni del Nord: rispettivamente 1.339.601 e 1.382.782. Secondo i dati della nuova indagine campionaria dell’Istat “Reddito e condizioni di vita” una famiglia campana su tre è molto povera (in quanto ricade nel quinto più basso della distribuzione dei redditi) e una su due è povera o molto povera (cioè si trova nella parte più bassa della distribuzione dei redditi).
Se si considerano alcuni indicatori ormai ampiamente usati a livello europeo per lo studio della povertà quali la difficoltà di acquistare generi alimentari, di pagare le bollette o di affrontare una spesa imprevista, si osserva come una quota elevata di famiglie napoletane ha una capacità di risparmio molto limitata e non riesce a soddisfare bisogni essenziali. Rispetto alle principali città italiane Napoli presenta la più alta incidenza di disagio alimentare, difficoltà di sostenere spese per la casa (incluso il pagamento delle bollette) e di coprire il costo delle spese mediche.
Il profilo della povertà a Napoli comunque non si discosta in maniera rilevante da quello della Campania e del Mezzogiorno se non per una maggiore concentrazione territoriale dovuta anche alla maggiore densità demografica dell’area. In particolare il carattere metropolitano di Napoli fa emergere alcuni tipi familiari maggiormente a rischio che sono meno presenti nelle aree rurali o nei centri minori della Campania. Tra questi vi sono le famiglia numerose cosiddette “complesse” in quanto costituite da più nuclei coabitanti. Si tratta tra l’altro di un tipo di famiglia povera che pone particolari problemi sul piano delle politiche sociali sia per ciò riguarda l’assegnazione di alloggi popolari (per le difficoltà di individuare i singoli nuclei che la compongono), sia per quel riguarda l’accesso ai servizi e alle misure di accompagnamento personalizzate, sia infine per la valutazione dell’impatto delle politiche stesse.
Rispetto invece agli aspetti che le classi sociali (e i quartieri) poveri mostrano in altre situazioni urbane europee (in particolare la riduzione dei legami sociali anche familiari e la capacità di resistenza rispetto ala disgregazione e alla deriva verso forme di devianza) a Napoli si possono notare degli elementi interessanti. Le famiglie povere napoletane potrebbero essere per molti versi collocate in una area che potremmo definire di “integrazione nella precarietà” caratterizzata dalla instabilità lavorativa e insieme da una tenuta complessiva dei legami familiari che consentono di compensare il deficit di integrazione sul mercato del lavoro. Questo carattere della povertà napoletana rende allo stesso tempo più facile e più difficile l’intervento sociale: più facile perché non siamo in presenza di una povertà “incarognita” ma di famiglie capaci ancora di mobilitare risorse interne rilevanti; più difficile perché trattandosi di una povertà intergenerazionale e non legata a caratteristiche personali o a eventi improvvisi quali il divorzio, la perdita temporanea di un lavoro, una malattia, è necessario assicurare una continuità dell’intervento negli anni per poter ottenere dei risultati.
Possiamo parlare nel caso della povertà a Napoli di una situazione di sottoequilibrio che si è andata determinando a livello informale (con uno scarso apporto delle risorse pubbliche) che ha fino ad oggi in qualche modo evitato forme di grave isolamento o di conflitto sociale come quelle che caratterizzano altre realtà metropolitane, pur non prevenendo situazioni di degrado e di forte incertezza sul piano della sicurezza sociale. In questo quadro un ruolo essenziale è stato svolto dalla tenuta della famiglia che si esprime in forme di mutuo aiuto fino alla coabitazione multigenerazionale. Tuttavia sarebbe del tutto fuorviante considerare il familismo coatto basato sulla coabitazione come un aspetto del modello napoletano di sopravvivenza, soffermandosi soltanto sugli elementi più tradizionali e folcloristici. Come dimostra una ricerca recente condotta da Gambardella e Morlicchio, essa appare al contrario una strategia coerente di combinazione di risorse scarse che si dipana lungo un orizzonte temporale per lo più di breve periodo per la precarietà delle entrate e la difficoltà di intravedere un cambiamento.
In questo contesto di diffusa precarietà e incertezza le donne – in specie le donne adulte - si confermano l’”anello forte” Nella già citata ricerca sulle famiglie complesse a Napoli risulta con tutta evidenza infatti come sono le donne i soggetti cui è demandato il compito di gestire il denaro in modo oculato, ad essere impegnate nelle varie attività domestiche e di cura, e sono ancora le donne quelle che scambiano denaro con altre donne all’interno e all’esterno della famiglia. Questa centralità femminile nelle strategie familiari non è senza conseguenze: per le donne che si trovano al centro di questa complessa organizzazione familiare rivestire il ruolo di “anello forte” significa rischiare di rimanere schiacciate da lavoro e responsabilità familiari, alle quali si aggiunge in alcuni casi il peso dello svolgimento di una attività lavorativa retribuita, quasi sempre irregolare (pulizia delle scale dei palazzi, estetista o parrucchiera a domicilio, assistenza anziani o bambini).
Insomma l’immagine di famiglia povera che emerge dalla ricerca citata contraddice in modo evidente la rappresentazione di una città in cui sono fortemente presenti microcriminalità e devianza tra gli strati più precari del proletariato. Anche se il carattere dell’indagine potrebbe aver portato a non vedere a sufficienza questo aspetto, ci sembra di poter sostenere con un certo fondamento che le famiglie intervistate sono nel complesso del tutto estranee ai circuiti di produzione illegale del reddito. Il restringimento dell’orizzonte di vita e dello spazio vitale determinato dalla condizione di deprivazione economica e culturale nella quale vivono potrebbe portare tuttavia a situazioni di esclusione sociale. Non è difficile immaginare che alcuni dei bambini incontrati nel corso della ricerca possano, divenuti adolescenti, imboccare un percorso con sbocco nella devianza. Dalla ricerca emergono tuttavia anche spinte in direzione opposta. Più di una intervistata ha espresso infatti un desiderio di cambiamento e di riscatto non ancora frustrato dalla condizione di povertà e di coabitazione e l’impegno nella cura dei minori testimonia della volontà di sottrarre i più piccoli a ciò che appare un vero e proprio destino sociale. Inoltre benché anche a Napoli, in alcuni quartieri o settori di essi, si registrino forme di concentrazione territoriale della povertà interna alla città, l’assenza di condizioni di isolamento sociale come quelle che colpiscono molti anziani nella grandi città del Nord d’Italia, di modalità di insediamento degli immigrati ghettizzanti, la persistenza di valori di tipo solidaristico grazie ai quali si attenua il disagio culturale e psicologico causato dal fatto di vivere al di sotto degli standard sociali vigenti rappresentano tutti elementi in grado di attenuare i rischi di disgregazione sociale e di evitare in molti casi la formazione di quegli effetti di concentrazione ai quali solitamente si fa riferimento.
Le famiglie povere napoletane tuttavia sono continuamente sottoposte a tentativi di stigmatizzazione che sono attualmente in atto nei confronti dei soggetti più vulnerabili, anche quando essi sono estranei all’area della devianza. L’esempio più chiaro è quello del quartiere Scampia, nella periferia Nord di Napoli, i cui abitanti sono nella loro totalità identificati come appartenenti “classi pericolose” anche quando con grande sforzo personale cercano di resistere al degrado che li circonda e alle forme di limitazione della libertà personale cui sono soggetti (interdizione di alcune zone durante le operazioni di scarico delle armi e della cocaina; obbligo di non portare il casco in modo da poter essere riconosciuti come abitanti del quartiere e non come potenziali killer, la segregazione in casa dei bambini per tenerli lontani dai pericoli della strada e via di seguito). La cattiva immagine di Scampia, la pericolosità sociale che viene attribuita – a torto o a ragione – ai suoi abitanti si riflette sulle loro condizioni sociali e sulle prospettive anche sul piano dell’accesso al lavoro, finanche quando si tratta di occupazioni dequalificate (come ad esempio quello della pulizia di case e palazzi). La discriminazione riguarda anche altri ambiti come la scuola poiché ad esempio alcune istituti superiori rifiutano la pre-iscrizione di ragazzi provenienti dalle scuole medie di Scampia. Il radicamento della criminalità organizzata non rappresenta però soltanto una fonte – sia pure illecita – di guadagno, ma più frequentemente costituisce un notevole ostacolo per lo svolgimento di una qualsiasi attività. Infatti rapine, estorsioni e ricatti di vario genere scoraggiano qualsiasi imprenditore, piccolo o grande, dall’investire. Ciò non costituisce un problema soltanto di Scampia ma della intera città e area metropolitana di Napoli.
Per concludere è opportuno qualche riferimento alle esperienze di intervento per contrastare la povertà, che sono state insufficienti rispetto alla portata del fenomeno. Sia per difficoltà oggettive sia per la scarsa volontà gli interventi hanno avuto una portata limitata sia nel tempo che nell’entità dei benefici. E questo è particolarmente grave, tanto più che le caratteristiche sociali e culturali della popolazione povera a Napoli potrebbero rappresentare un indubbio aspetto positivo non a sufficienza valorizzato dalle politiche sociali locali, in parte anche a causa del loro carattere discontinuo e poco integrato e delle difficoltà di finanziamento. A suo tempo la sperimentazione del RMI su scala nazionale a Napoli aveva se non altro suggerito una possibilità di cambiamento, creando aspettative frustrate dalla immotivata e improvvisa conclusione di quella esperienza. Un aspetto rilevante di quella breve stagione di politiche di inclusione sociale è stato quello di avere non solo consentito ad alcune di queste famiglie di uscire da una situazione di povertà grave, mediante il recupero della scolarità, il rientro da situazioni di morosità o di irregolarità di altro tipo, l’orientamento professionale, ma anche di avere arricchito la rete personale di legami “deboli” in grado di fare uscire queste famiglie dal contesto segregante del quartiere e dalla situazione di deprivazione culturale in cui vivono, trasformando le risorse di solidarietà di cui esse ancora dispongono in un vero e proprio capitale sociale. Come è noto questo intervento fu cancellato dal governo Berlusconi, appena insediato, che contestualmente rinnovò la composizione della Commissione di indagine sulla esclusione sociale, che in un recente convegno a Napoli ha potuto festeggiare gli effetti delle politiche governative in termini di incremento della povertà a Napoli.
Rispetto invece all’intervento attualmente in corso di reddito di cittadinanza, deciso con propri fondi dalla Regione, non si può non sottolineare la portata forzatamente modesta. Nella intera regione sono state presentate complessivamente 146.753 domande, di cui 34.766 relative alla sola città di Napoli. Riguardo a queste ultime 6.194, pari al 17,8% del totale, sono state respinte in quanto i soggetti richiedenti erano privi dei requisiti richiesti. Ciò fa scendere il numero dei richiedenti a 28.572. Di questi solo 3.469, pari al 13,3% dei richiedenti che hanno passato la selezione, ha avuto accesso alla misura. In sintesi si può dire che in questo caso specifico la domanda soddisfatta corrisponde a poco meno del 10% della domanda effettiva o espressa la quale a sua volta costituisce solo una quota della domanda potenziale o latente rappresentata da coloro che, pur in condizione di povertà grave, non hanno fatto richiesta del RdC.
Detto questo, va ricordato che all’origine della povertà a Napoli e nella regione stanno soprattutto ed essenzialmente problemi occupazionali legati allo scarso sviluppo produttivo seguito alla ormai avvenuta fase di deindustrializzazione. Alle possibilità occupazionali cancellate non si sono sostituite possibilità occupazionali nuove per effetto di una carente politica di sviluppo. Insomma la città è stata vittima negli ultimi decenni e in particolare nella prima metà degli anni Duemila di un assoluto disimpegno sia sul piano economico che sul piano delle politiche sociali. Ed è su entrambi i fronti che è possibile combattere la povertà.
In assenza di tutto ciò alle famiglie napoletane non resta che il ricorso ad una risposta adattiva come quella della coabitazione alla quale abbiamo fatto prima cenno. Quest’ultima, anche se nel breve termine riesce a tamponare il divario tra risorse e bisogni, nel lungo periodo non rappresenta una soluzione valida, finendo con lo spalmare il rischio di povertà grave su di un numero ancora più alto di persone e di trasmetterlo da una generazione all’altra.

1 commento:

  1. Il vostro interessantissimo articolo ha suscitato in me alcune domande ed un ricordo.
    Le domande:
    *la "povertà" a Napoli è frutto anch'essa e per intero delle dinamiche di esclusione ed emarginazione generate dalla globalizzazione, quale quella ad esempio risultante dalla deindustrializzazione, o vi è anche una povertà, per così dire endemica? In altri termini: a Napoli c'è solo una "nuova povertà" o vi sono anche tante "vecchie povertà"?
    * che Napoli presenti la più alta incidenza di disagio alimentare e di difficoltà di sostenere spese per la casa e per la salute è fenomeno recente o sempre (nel senso di molti decenni, per non dire alcuni secoli)a Napoli l'indigenza è stato un fenomeno diffuso più che altrove?
    * la forza dei legami familiari ancora capaci di mobilitare rilevanti risorse interne alle famiglie e al parentame non è una risorsa preziosa sulla quale si potrebbe puntare come leva per restaurare la struttura sociale e fisica della città, per ridurre le condizioni di povertà?
    Il ricordo: ai primi degli anni cinquanta un bambino di poco più che dieci anni, sorpreso a rubare in uno dei primi supermercati di generi alimentari che si aprirono a Napoli,fu affidato ai servizi sociali. L'assistente che si recò presso la famiglia ne parlò con la mamma che restò esterefatta,chiedendosi come mai suo figlio avesse potuto immaginare di ricorrere al furto; si mostrò spaventata delle reazioni del marito quando fosse tornato dalla "fatica" a tarda sera, perché lui all'onestà ci teneva assai. All'assistente che chiese che lavoro facesse il marito, la signora rispose: Vende le sigarette di contrabbando, distinguendo quindi nettamente due concetti: l'onestà e la legalità. Probabilmente non aveva torto. Ma questa distinzione non può essere una difficoltà che ostacoli il miglioramento della qualità sociale della nostra città?
    Nino Lisi

    22 gennaio, 2008

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