Invito
Un tema destinato a suscitare nell’immediato reazioni sentimentali di speranza o di disillusione, prima e più che reazioni ragionate di analisi e di valutazione. Come se dinanzi a questo valore universale non si potesse praticare nulla di concreto e di incisivamente coerente. Come se ci fosse un vuoto di elaborazione teorica e di spazio di azione destinato a generare, nell’ambito della critica e dell’agire politico, solo le urla straziate sulle morti e sugli infortuni, solo le sterili opposizioni alle leggi di Treu e di Maroni sulle flessibilità, e, qui da noi, solo l’antico rapporto utilitaristico con le liste dei disoccupati organizzati,.
Ed invece qualche ragionamento sulle politiche e sulle pratiche del lavoro va fatto tenendo come prospettiva il significato del Cantiere e tenendo presenti le parole che il cantiere ci propone come scelta e come chiavi di lettura.
Il documento-appello per Un patto sulla produttività e la crescita, proposto nel settembre 2006 da studiosi dell’economia e del lavoro, richiamava l’attenzione sulla centralità dei processi innovativi e, in essi, della organizzazione del lavoro, e individuava come nodi strategici per lo sviluppo le ‘Nuove pratiche di lavoro ad alta performance(NPL)” ua sorta di “toyotismo” dal volto “democratico” ::
“L’introduzione delle cosiddette NPL avviene attraverso la riorganizzazione dei luoghi di lavoro, che si concretizza in una serie di cambiamenti tanto nel capitale fisico (investimenti in nuove tecnologie, ICT) quanto in quello organizzativo (organizzazione per processi piuttosto che per funzioni, riduzione dei livelli gerarchici e generale processo di decentramento dei poteri verso i livelli medio-bassi: maggior coinvolgimento dei singoli lavoratori e dei rappresentanti sindacali, lavoro di squadra, aumento della responsabilità e della conseguente discrezionalità a livello medio-basso, formazione di tipo cognitivo e relazionale, incentivi legati all’apprendimento)”.
Nel linguaggio specialistico del documento si possono cogliere parole ben note e radici di civiltà (relazioni cooperative, responsabilità, discrezionalità, comunità di pratica, conoscenze tacite) e di scenari che comunemente si praticano, e praticano, in particolare, soprattutto le donne. Anche per questo ho avvertito nel documento un segnale di scelte innovative intellettualmente e politicamente stimolanti e potenzialmente condivisibili.
Le qualità che fanno “alte” le performance di lavoro, ma anche le performance sempre più elevate che sono richieste per ben consumare, ben utilizzare i servizi, per interloquire con la pubblica amministrazione, ben comportarsi, ben-essere attivi, responsabili, autonomi e consapevoli, sono considerate, nell’ottica del mercato, come essenziali; ma sono unilateralmente richieste alle persone, e sono sistematicamente isolate dall’idea della persona, e delle civiltà di persone che queste qualità le producono e le riproducono.
L’attenzione del dibattito politico, nel nostro arroccato Paese, ristagna nei marasmi delle dispute ideologico-tecnicistiche, sulla flessibilità da eliminare e quella da salvare, e quella da aggiungere nel mercato del lavoro. Il dibattito sul welfare, definito l’accordo sulle pensioni, si è spostato verso la riforma del mercato del lavoro e la riforma degli ammortizzatori sociali. La accorta separazione di queste materie in tre fatti distinti, concettualmente e cronologicamente separati, non fa giustizia del loro destino inesorabilmente congiunto, che non a caso le vede tutte da almeno venti anni in perpetua “ri-formazione”. Allo stesso tempo, l’impropria riduzione delle politiche di welfare ai temi delle pensioni, del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali non rende ragione di un valore più ampio e più alto che il sistema di welfare dovrebbe rappresentare e che riguarda i diritti fondamentali e il benessere di tutti, e dunque le politiche della salute, della assistenza, della istruzione, della casa. Separate, le questioni vitali per il benessere e la sopravvivenza dei più sono sempre in ballo e sempre in bilico e “fanno” la politica dall’alto, dall’alto del potere di vita, o non vita, e che vita, sui più.
Il quadro d’insieme delle politiche del lavoro e delle politiche di welfare mostra, nel frattempo, in Italia nuove e crescenti debolezze.
Esiste un modello di organizzazione e di regolamentazione delle politiche sociali che con la legge “368” sembrava ben concepito e che le autonomie locali si sono sforzate di mettere in pratica. Ma le politiche sociali scontano nel nostro paese una inadeguatezza di risorse finanziarie pubbliche (che si accompagna ad una pressoché completa assenza di strumenti che favoriscano altre forme di finanziamento solidaristiche o privatistiche incentivate) e scontano una dipendenza dalle politiche di previdenza e assistenza legate al mercato del lavoro. Il welfare della cura, dell’assistenza, dell’istruzione, della salute, dell’abitare, è costretto nell’angolo di compatibilità economiche insostenibili e spinge i più deboli nella sofferenza e nella marginalità, nell’angolo di una esclusione che fa di un disagio materiale, di una famiglia spezzata, di una vita segnata da un handicap, di una infanzia e di una terza età in solitudine, di un lavoro in nero, di un incidente sul lavoro in nero, una moltitudine isolata di percorsi senza uscita verso l’abbandono.
L’ancoraggio del welfare al lavoro, che divide tuttora i diritti di cittadinanza in diritti ascritti agli occupati stabili e diritti residuali ai cittadini in difficoltà, è sempre più instabile. Il lavoro, a sua volta, disancora dal prototipo della stabilità e decade nei livelli retributivi, nel rischio disoccupazione, nell’alea della precarietà. Il lavoro vive un processo di ri-mercificazione considerato ineluttabile per la crescita della competitività e dell’occupazione; ma lo vive senza mercato, in un sistema di mercato e di impresa che non muta sostanzialmente nella sua arretratezza, e dunque senza vedere crescere né la competitività, né l’occupazione. Il mercato del lavoro non ha più un modello di organizzazione e di regolamentazione riconoscibile e cresce in esso, con netta prevalenza, l’occupazione non stabile senza adeguati strumenti di inclusione dei lavoratori non stabili nel welfare del lavoro.
Non è con una politica che si fa garante delle compatibilità economiche, prima, o piuttosto, che dei diritti fondamentali, che si affronta il nodo della ri-mercificazione del lavoro e di una ri-mercificazione “senza mercato”. Senza occuparsi di premiare il lavoro, dargli fiducia, sostenere il contraente debole nella sua capacità e volontà di rappresentarsi come una forza che con dignità e pieno diritto si sente protagonista della produzione. E tutto questo, ahimè non si ottiene neanche dando una sterile e mistificante enfasi alle politiche della formazione e dell’empowerment, mentre diminuiscono i salari reali, aumenta la precarietà del lavoro, diminuiscono i tassi di attività, rallenta la crescita della occupazione, si ignora qualsiasi voce in materia di organizzazione del lavoro o in materia di investimento nel welfare.
In questi venti anni di flessibilità e di deregolazione del mercato del lavoro non è mai capitato che i lavoratori dipendenti italiani si sentissero un po’ meglio, nemmeno quelli più sindacalizzati, e tantomeno quelli indicati come vittime della rigidità sindacale. Questo perenne essere in punizione dei lavoratori dipendenti non sembra aver premiato il paese, il suo sviluppo, la sua competitività.
L’agire politico verso la de-mercificazione del lavoro dovrebbe investire dunque in modo armonico le questioni dello sviluppo, del lavoro e della cittadinanza e del benessere.
In questa cornice occorre tenere ben presente che, nello specifico, la regolamentazione del lavoro avviene con una strumentazione articolata e complessa dei livelli decisionali, legislativo, governativo (politichedellavoro) e contrattale, e dei livelli di gestione amministrativa, applicativa e valutativa. Discutere solo di flessibilità e di leggi in questa cornice non basta e non serve a risolvere, specie nella nostra ottica di partecipazione e di cittadinanza attiva.
Può servire una ventata di iniziative che insista sul tema delle Nuove pratiche di lavoro ad alta performance, dove per performance si intendano innanzitutto le qualità sociali, con una ripresa di attenzione al rafforzamento, sotto il profilo legislativo, dello statuto dei lavoratori rispetto ai nuovi modi di lavorare, della contrattazione decentrata rispetto alle nuove forme di partecipazione e di rappresentanza, della gestione amministrativa e del suo decentramento rispetto alle funzioni di controllo e di servizio nel territorio, e con una ripresa di mobilitazione, di inchiesta, di relazioni, di informazione, sulla organizzazione del lavoro e sulle condizioni materiali del lavoro che si presentano oggi in Italia.
E l’ascolto e il contributo di Luciano Gallino in questa chiave è assolutamente utile.
Susi Veneziano
lunedì 28 gennaio 2008
Il 31 gennaio Luciano Gallino parlerà a Napoli sul tema “Il lavoro non è merce”
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cittadinanza sociale,
diritti,
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Tenterò una "reazione ragionata di analisi e di valutazione" credendo che non è "come se ci fosse", ma essendo convinto che "un vuoto di elaborazione teorica e di spazio di azione... nell'ambito della critica e dell'agire politico" c'è davvero.
RispondiEliminaNon penso ovviamente di essere io a colmare questo vuoto. Occorre ben altro. Vorrei provare, però, a proporre alcuni spunti di rifles-sione.
Il Primo. Agli inizi degli anni '90 si tenne a Venezia il Convegno dei "circoli comunisti". Un dirigente della Fiom riferì che la prima decisione presa dalla FIAT appena in possesso degli stabilimenti di Arese dell'Alfa Romeo fu di eliminare l'esperienza in corso di un modello organizza-tivo basato sul lavoro di squadra, sulla responsabilizzazio-ne dei lavoratori, sulla riduzione dei livelli gerachici, sull'articolazione dal basso delle decisioni operative. Me ne stupii e chiesi spiegazioni, perché sapevo che la Fiat, qualche tempo prima, aveva chiesto all'autore di quell'esperimento - il sociologo del lavoro G.M. Montironi - di adottare per la formazione interna il libro nel quale quell'esperien-za aveva descritto e motivato. Mi fu risposto che la FIAT si era accorta che quel modello di orga-nizzazione stava generando nella fabbrica un sistema di punti di decisione in mano agli operai.E quindi stava creando un nuovo potere.
L'episodio è emblematico della miopia del padronato italiano e della sua incapacità di misurarsi con l'innovazione che o coinvolge contemporaneamento la componente tecnologica, quella organizzativa e quella della cultura aziendale o non è. Ed anzi l'evoluzione delle tecnologie non accompagnata da una equivalente evoluzione degli altri due fattori dà scarsi risultati, quando non si riveli un boomerang.
L'episodio suggerisce anche di riflettere su un'altra insipienza (parola troppo grossa?); quella della sinistra e dei sindacati che non hanno vpuntato sulle opportunità offerte dall'innovazio-ne tecnologica per tentare di spostare i rapporti di forza all'interno delle imprese.
Di questo per la verità si parlò a Venezia; ma qualche autorevole dirigente politico propose di "lanciare sabbia negli ingranaggi", una sorta cioè di nuovo luddismo nei confronti delle nuove tecnologie; fu garbatamente redarguito da Pietro Ingrao che fu tra coloro che propendevano per esplorare il sentiero delle nuove opportunità.Ma tutto finì lì.
Secondo. Le nuove tecnologie offrono al capitale un grado di libertà molto alto nella localizzazione degli investimenti, perché cicli e processi produttivi pssono parimente goverarsi da lontano come da vicino. Sicché le fabbriche si localizzano dove vi è manodopera abbondante, obbediente e a basso costo. Nel contempo offrono la possibilità di modelli di produzione flessibilissimi,che si adeguino rapidissimamente al variare quantitativo e qualitativo della domanda. Di conseguenza anche il lavoro diviene flessibi-le. Per lo squilibrio però tra domanda ed offerta di lavoro, la flessibilità in questo caso si accompagna inevitabilmente alla precarietà. Che dunque è un dato strutturale di "questo" sistema. E' lecito ritenere illusorio l'obiettivo di battere la precarie-tà all'interno del sistema dato? E' follia proporre l'obiettivo - solo apparentemente più ambizioso e meno praticabile - di porre mano ad un sistema diverso che coesista con quello esistente? Un sistema cooperativo invece che competiti-vo, a servizio di una società solidale invece che individuali-sticamente frantumata? Si intende questo quando si afferma che "L'agire politico verso la de-mercificazione del lavoro dovrebbe investire dunque in modo armonico le questioni dello sviluppo del lavoro e della cittadinanza e del benessere"? Se sì, sono d'accordo.
Terzo. Giovani Mazzetti - economi-sta della Università della Cala- bria - illustrò con chiarezze ineccepibile sul Cerchio Quadrato - un supplemento de il manifesto di qualche decennio fa - come il sistema di Welfare fosse funzionale alla fase fordista del capitalismo e che la globalizzazio-ne ne segnava la crisi irreversibi-le. Intendiamoci: difendere con i denti ciò che si è ottenuto con le lotte del passato è necessario e doveroso; ma puntare unicamente sulla conservazione delle conquiste passate è suicida. Bisogna porre mano anche a questo proposito a modelli e sistemi nuovi, non per rispettare le "compatibilità" di questo sistema, ma per capovolgerne il paradigma: non le compatibilità dell'economia imposte alla società, ma le compatibilità di quest'ultima poste come vincoli all'economia. Si capisce: non di "questa" economia.
Conclusione. Per un verso, sono terribilmente pessimista: all'interno di "questo sistema" non v'è salvezza né per gli esseri umani né per la'mbiente (posto che questa distinzione fosse possibile). Al tempo stesso però sono fiducioso: la globalizzazione non segna la fine della storia; un altro sistema è possibile.Anzi, se ci guardiamo intorno con occhi non offuscati dal mito dello "sviluppo"
possiamo scorgenrne già alcune anticipazioni.
Intorno a questa sfida potrebbe aggregarsi una sinistra nuova ?
Nino Lisi