mercoledì 19 novembre 2008

Lettera a Carlotto

Da Paola questa lettera, più che un commento una continuazione di quello che tanto ci ha toccato dell'articolo di Carlotto "La festa dei 40 anni" qualche giorno fa.

In questo momento della vita di molti di noi, in cui la gioia di abitare un luogo dove le proprie idee e aspirazioni per un mondo migliore hanno finalmente trovato un loro spazio, si mischia alla triste consapevolezza di quanto lunga e faticosa sarà la strada da percorrere per riuscire a farsi sentire in questa società narcotizzata, le parole di Carlotto aprono il cuore e lo riempiono di “affetto”. Non siamo poi così soli, non siamo poi così pochi, né tanto meno così lontani. Ed uno dei compiti da portare avanti, parallelamente alle lotte, è quello di riconoscerci e conoscerci ovunque siamo.
E’ vero, quindi, caro Massimo “dobbiamo avere il coraggio di cambiare completamente il nostro modo di comunicare”. E, per farlo, il primo passo è quello di uscire di casa, avere la forza di staccarsi dall’unico luogo dove ci sentiamo sicuri, protetti e amati. Ma questo non è ugualmente praticabile per tutti. Anche per “uscire di casa” sono necessarie non poche risorse, culturali, relazionali e, non ultime, economiche. Capisco e condivido il tuo attacco alla televisione e soprattutto all’uso che ne fanno i politici, ma penso anche che essa sia, oggi più che mai, lo strumento più democratico che esista per comunicare con coloro che non sanno neanche cosa sia un blog, che non leggono, e che meno che mai vanno a teatro o a cinema per vedere un documentario. Quindi un impegno maggiore per “occuparla”, per far sì che quanto di buono si riesce a fare e a vedere esca dall’attuale collocazione di nicchia, va tentato in ogni modo. Anche la televisione pubblica è un “territorio” per il quale lottare, la prospettiva che venga del tutto consegnata a coloro che ne sono oggi i padroni, più o meno occulti, mi atterrisce.

Uscire di casa, però, significa anche, come sottolinei giustamente, coltivare “nuove forme di relazioni umane”, un rinnovato impegno non solo nel condividere le lotte, ma anche e soprattutto nell’agire sociale in senso più lato.
Ed è così che da circa un mese, ad esempio, ho iniziato un’attività di doposcuola per i bambini del mio quartiere (a composizione prevalentemente popolare) che frequentano le scuole elementari. Si sta rivelando un’esperienza molto bella, ma anche difficile per me che non ho avuto figli e so poco di come rapportarsi ai ragazzini di 9, 10 anni. L’altro pomeriggio però, dopo l’ultimo incontro in cui le tre ragazzine che sto seguendo mi avevano accolto con baci, abbracci e disegni in regalo, è arrivata la doccia fredda: due di loro da alcuni giorni non stanno andando più a scuola e non per motivi di salute. Solo l’idea che due bambine (e sottolineo il fatto che si tratti di due femminucce) possano abbandonare la scuola senza neanche aver preso la licenza elementare mi ha fatto venire la pelle d’oca. Ho pensato a come comunicare con i genitori, gli insegnanti e le bambine stesse per scongiurare questa eventualità e mi sono un po’ avvilita, temendo la mia inadeguatezza. Ma soprattutto ho anche pensato, più in generale, che per comunicare con qualcuno e convincerlo, ad esempio come dici tu che “abbiamo ragione e che è bello, giusto, lungimirante e socialmente conveniente schierarsi con noi”, andrebbero create le condizioni per far sì che un numero sempre maggiore di persone acquisisca gli strumenti per comprendere e scegliere consapevolmente. Chi frequenta un blog o va a teatro probabilmente già li ha, mentre tra tutti quelli che non frequentano questi luoghi (e forse vedono tanta televisione) ce ne sono molti che non li hanno affatto ed è innanzitutto con questi che sarebbe necessario imparare a comunicare.

Paola Clarizia
Cantiere Sociale Arcipelago Napoli

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